di Carola Minincleri Colussi
La scenografa Roberta Bianchini vide il telo bianco che letteralmente separa la scena in due, e anche il tempo in due, come se “La Voce” avesse due atti, e disse che le piaceva molto che fosse così “calpestato”, che le sembrava molto coerente con quello che facciamo a noi stessi, e ancor più coerente se avesse dovuto farla pensare in particolare alla sottile pelle di un adolescente, che non trova il suo posto, che non si sente ascoltato, spesso umiliato, senza saperlo, nella sua sensibilità da un mondo ignorante della sfera emotiva e distratto, infinitamente distratto.
Durante lo spettacolo uno dei due personaggi, quello che resta “tagliato fuori” e viene punito per aver ceduto al desiderio di mangiare un ovetto di cioccolato, fa un gesto, sottile, che mi commuove: tocca il telo bianco, non sa cosa sia, lo sfiora per vedere se è vero, lo contatta con un filo di tensione, non sa che cosa succederà.
L’attrice Marina Missiato durante le prove dello spettacolo La Voce
Nemmeno io so cosa sia, nel profondo, quel gesto leggero e rubato, come sia arrivato sulla scena, so che cercavo di tradurre quel senso di distacco, di allontanamento che si prova quando ci si scopre improvvisamente distanti da sé, quando ci si accorge, sempre troppo tardi, che tutte le piccole bugie che ci siamo raccontati ogni giorno, sono diventate un muro che ci ha reso impossibile comunicare con noi stessi.
Troppo tardi per non sperimentare la sofferenza dell’esilio da sé, ma assolutamente mai troppo tardi per trovare il coraggio di apprendere qualcosa sullo scarto tra quella sofferenza che ci procuriamo e il dolore, che invece fa semplicemente parte della vita. Una volta compresa la differenza, il velo via via si assottiglia, e un giorno se siamo fortunati sparisce.
Questa è la mia esperienza.
